“Devo ucciderli. Devo farlo. Devo riprendermi
la mia vita.” Un pensiero fisso. Un’ossessione. Una ragione di vita o … di
morte. L’unica.
Un
giorno li ucciderò e tutto tornerà come prima.
Ho ricostruito milioni di volte quel momento.
L’ho rivissuto. Lo stesso dolore, la disperazione che l’impotenza accentua fino
ad annullarti. Lo sguardo perso alla ricerca di aiuto. Niente. Momenti che non
si possono raccontare, quando ci provi ti sembra di ascoltare la voce di un estraneo
e alla fine nemmeno tu riconosci in quel racconto le ragioni della tua
disperazione. La cronaca è piena di fatti simili. Leggi ti fai coinvolgere, giri
la pagina e provi la stessa rabbia per un rigore non dato o per una delle tante
oscenità commessa dal politico di turno.
Prenderesti a calci tutti quelli che dicono
di capirti, quelli che con l’espressione di circostanza vorrebbero alleviarti
le sofferenze. Ma non è colpa loro, non si può capire senza averlo vissuto.
Adesso lo so. Nemmeno le persone che ti amano possono lenire la tua angoscia.
Vorresti ma non puoi reagire. Hai paura che l’odio che provi possa dissolversi,
si attenui. Arrivi a pensare che senza quella disperazione finiresti per non
avere nessuna ragione di vita. Allora la coltivi, ti inventi esercizi
quotidiani per allenare la mente. Ripensi a quei calci, a quello sputo, al
vuoto che niente e nessuno riesce a colmare. Cammini, mangi, lavori ma la tua
dimensione sta tutta in quel pensiero, nella certezza che un giorno li
ucciderai. I colleghi al lavoro fanno di tutto per aiutarti ma non sanno come
comportarsi, leggi il loro imbarazzo.
Rivedo Elena asciugarmi la fronte fradicia
di sudore nel tentativo di calmarmi. Disperata, impotente. Una notte mi si
avvicinò nuda e cominciò a baciarmi la schiena, ad accarezzarmi dolcemente. La
mia reazione violenta mi sconvolge ancora adesso. Non scorderò mai la sua
espressione terrorizzata, le sue lacrime, il suo silenzio. Più attenzioni
ricevi e più aumenta il fastidio di avere qualcuno vicino. Tutti ti ripetono
che passerà ma tu non vuoi che passi. Per fortuna non ci si mette molto a rimanere
soli.
Ricordi nitidi si alternano ad altri
confusi, la certezza che erano in tre: una donna e due uomini. Sono sicuro di aver
visto qualcosa di importante, un particolare che mi sfugge. Sembri sempre sul
punto di agguantarlo ma più ci pensi e più il cervello si rifiuta. Due mesi di
ospedale, la voce del medico “Bisogna intervenire subito, è ridotto male …”.
Gli ultimi due calci in particolare erano stati devastanti, il primo mi aveva sfigurato,
l’ultimo maciullato la milza. Il dolore però non é nulla rispetto al panico, all’angoscia,
al vuoto. Ti puoi ripetere mille volte che ti è andata bene. Parole vuote. Non
avevo mai creduto nel destino ma ci sono situazioni che ti fanno riflettere. Ero
soddisfatto di essere rientrato da Roma con un giorno di anticipo, quasi un
miracolo. Per Elena sarà una festa, mi sembra già di sentire il calore del suo
abbraccio. La fila di persone al parcheggio dei taxi mi suggerisce di andare a
piedi, tanto la distanza non è proibitiva nemmeno per uno pigro come me. L’attesa
del verde al semaforo, due passi e appena girato l’angolo qualcuno mi urta
violentemente, non ho nemmeno il tempo di rendermene conto che sento un pugno violentissimo
allo stomaco, tossisco, mi manca il fiato. Trascinarmi in un cortiletto
seminascosto da un portico è un gioco da ragazzi. Una voce grida, incita a
picchiarmi. Grida e batte le mani. Un’altra femminile piange, implora, insiste
di desistere “Basta, andiamocene. Siete impazziti.”. Non so dire quanto duri
tutto questo. Qualcuno si china, mi fruga, mi toglie l’orologio che indossa
subito e nell’alzarsi mi sputa in faccia. Rivedo ininterrottamente quei gesti,
riavvolgo il nastro e vai con un’altra proiezione. Per questo devo ucciderli. Per
ricreare un equilibrio tra passato, presente e futuro. Spesso mi torna alla
mente un personaggio di James Ellroy, uno psicopatico che ragionava più o meno
così e girava l’America seminando cadaveri. Non mi interessa se sono uno
psicopatico e non devo seminare cadaveri. Devo ammazzarne tre e tornare a
distinguere i colori.
Le indagini sono peggio dell’aggressione
stessa, difficile credere alla rapina. Il trolley nemmeno aperto, il
portafoglio con le carte di credito ritrovato sopra un cassonetto a meno di dieci
metri. Un bottino di poche centinaia di euro e un orologio, anche se di pregio,
non motivano tanta brutalità. La pista dei tossici viene quasi subito scartata,
un disperato che ha bisogno di bucarsi non fa una manfrina simile. Gli
interrogatori si susseguono, la tua vita viene setacciata, particolari
insignificanti o che credevi tali vengono travisati, ti si rivoltano contro. “Lei
è un giocatore di biliardo?” Il commissario non aspetta la risposta, anzi
carica con un’altra domanda “Le risulta che in quell’ambiente circoli
cocaina?”.
Il lavoro, la vita privata, l’ex moglie. Per
fortuna la mia condizione sociale consiglia cautela. Per fortuna Bologna è una
città dove i crimini non mancano e dopo un po’ l’interesse sfuma, così come la
possibilità di individuare i colpevoli. A voler essere onesti, i particolari
che ero stato in grado di fornire non aiutavano molto. Non ricordavo quasi
niente. Non ricordavo nulla fino a ieri.
Non credo nel destino ma le coincidenze sono
spesso bizzarre. Un altro rientro, un’altra fila ma stavolta piove e il taxi è d’obbligo
anche per un breve tragitto. “Mi fa la ricevuta per favore?” Due scarabocchi
sul foglietto con la pubblicità di un Sexy Shop e il braccio che si tende per
allungartelo. Nemmeno uno sguardo. Senti un grumo di sangue che si stacca dal
cervello ma riesci a controllarti. Il serpente tatuato sul polso, il neo che
sembra un occhio che spunta dalla testa del rettile. La tessera mancante. Il
puzzle è completo.
Non ci sono dubbi. “Le prendo i bagagli.” Mi
accorgo di sentire la sua voce per la prima volta, a parlare erano stati gli
altri. Sorrido al pensiero che questo particolare era sfuggito anche al
commissario. Esce dall’abitacolo. Lo guardo senza lasciare trapelare interesse.
Adesso sono lucidissimo. Guardo la sigla del Radio Taxi. Annoto la targa, non
c’è bisogno di scriverla. “Grazie e arrivederci”. Riparte.
Mi guardo intorno, la città é diversa, ha
ripreso il suo ritmo, i suoi colori, il suo fascino. Non mi rimane che studiare
un piano ma non c’è fretta. Una vetrina mi restituisce un sorriso, il primo
dopo tanto tempo. Da quanto non mi sentivo così bene? Adesso devo pianificare
tutto e non sarà una passeggiata, la mia esperienza nel campo si limita alle centinaia
di noir letti e all’intera serie di Criminal Minds ma non credo mi saranno di
grande aiuto.
Non
basta ammazzarlo, devo fargli rivelare il nome degli altri due.
Dovrò sequestrarlo, so già dove tenerlo,
come fare ma se nella fantasia sembrava semplice adesso tutto sembra
complicato, perfino i movimenti diventano più lenti, quasi impacciati. L’eccitazione
lascia il posto ai dubbi.
Ok.
Una pizza, un film e una buona dormita. Domani è un altro giorno.
I giorni passano. Euforia e depressione si
alternano. E’ ora di muoversi. Qualche appostamento, la stazione diventa un
appuntamento fisso. Mi basta poco per capire che prendere il taxi giusto non sarà
un problema, le pause sono lunghissime, basta avere pazienza.
Questa è fatta. Non è granché ma è pur
sempre un punto di partenza. Adesso devo passare all’azione. La vecchia casa
dei miei in collina è perfetta, fuori città ma non tanto da insospettire un
taxista. La casa è disabitata ma ogni tanto ci trascorro un fine settimana e se
anche qualcuno mi vedesse non avrebbe di che sospettare. Non ho una pistola ma
il modello della Beretta 92 semiautomatica che tengo in bella mostra nella
vetrinetta in ufficio andrà benissimo. Per una volta una delle mie tante manie
sarà utile. La rimetterò a posto senza che nessuno noti l’assenza. Procurarmi
un coltello e delle manette non sarà un problema. A Bologna ci sono bazar
cinesi dove potresti trovare tutto il necessario per allestire il set di
qualsiasi sceneggiatura. Sarebbe più facile ammazzarlo senza tante storie ma
non scoprirei l’identità dei complici. Comincio a prenderci gusto. Scelgo di
agire nel tardo pomeriggio. “Le costerà parecchio” commenta quando dico
l’indirizzo.
Costerà
molto di più a te stronzo.
La dinamica non é molto diversa da quel che
si vede nelle fiction, scendo dall’auto per aprire il cancello pregandolo di
entrare nel cortile dell’edificio così da poter scaricare le due pesanti valige.
Appena è fuori dal taxi estraggo la
Beretta gliela punto addosso e gli dico subito chi sono. La sua
reazione mi rassicura sulla credibilità della messinscena. Farlo entrare nel
garage, ammanettarlo e imbavagliarlo è facile ma la tensione è tale da
svuotarmi di tutte le energie. Recupero il taxi, lo parcheggio all’interno
recupero la mia auto e torno in città.
Non saprei descrivere il mio stato d’animo, per
un momento ho pure accarezzato l’idea di denunciarlo ma il ricordo degli
interrogatori mi fece desistere in fretta. Girai la chiave del mio appartamento
nel momento stesso in cui si fermò l’ascensore e scese l’anziana vicina che mi
salutò con la solita sfilza di apprezzamenti. Un incontro che mi avrebbe potuto
far comodo in caso di … non ce ne sarà bisogno.
Mi addormentai sul divano privo di forze. Una
notte piena di incubi. Le prime luci del giorno fecero da cornice al rituale di
tutte le mattine. Temporeggiai a lungo sotto la doccia, mentre preparavo la
macchinetta del caffè spinsi play nel hi-fi e la voce di Chris Martin riempì la
stanza. Per un attimo mi lasciai andare ma gli attimi passano in fretta.
Ripensai alle ultime ore, provai a pianificare le mosse future ma la carica che
mi aveva spinto in tutto questo tempo sembrava esaurita. A sconvolgermi era il
dubbio che nulla sarebbe cambiato.
Non avevo fretta, avevo scelto il venerdì
apposta, così da avere il week end libero, avevo guidato adagio e mi ero fermato
allo spaccio poco distante dalla casa dove avrei ucciso un uomo. A quell’ora il
locale era molto frequentato, qualcuno mi riconobbe, un vecchio amico di mio
padre volle offrirmi a tutti i costi un caffè e salutandoci mi disse “Fai bene
a trascorrere qualche ora nella vecchia casa, lì ci sono le tue radici”.
Comprai i giornali, qualcosa da mangiare
anche se mi ero procurato tutto il necessario in città. In prima pagina non
c’era nessuna notizia della sparizione del taxista, nemmeno nella cronaca
locale del Carlino.
“Allora pezzo di merda come procediamo?” Era
disteso in terra, ammanettato al termosifone, caviglie legate al paraurti del
taxi, corde non troppo tese per permettergli qualche movimento. Mi guardava
quasi senza espressione, colsi addirittura qualche lampo di sollievo. Non
rispose alla mia domanda mi chiese solo di poter andare in bagno. “Pisciati
pure tranquillamente addosso, tanto dove devi andare non sono di gusti
difficili”. Ascoltavo la mia voce nel ruolo di duro, un’interpretazione pietosa.
Avevo recuperato una sedia di legno, la mia attenzione era attratta da alcune
crepe nell’intonaco, non avevo più fatto molto caso alle condizioni della casa
da quando erano morti i miei. Avrei dovuto decidere cosa farne, l’immobile era
di valore, la collina bolognese negli ultimi anni era diventata un luogo
appetibile. Mi accorsi che il mio ospite stava parlando, rientrai con fatica
nel ruolo “Ripeti, per favore, mi ero distratto”.
Una pausa e riprese “Avevamo bevuto e
sniffato cocaina. Siamo usciti con l’idea di fare casino. Ti abbiamo visto,
abbiamo perso la testa, non credo ti servano i particolari.”
“Chi erano gli altri due?” Il tono non
rispecchiava la situazione. Sembravamo due vecchi amici. Non ci fu bisogno di
forzare mi raccontò tutto, lei era stata una semplice spettatrice, io stesso
l’avevo sentita implorare di smetterla, era la sua donna ma quell’episodio aveva
minato il loro rapporto definitivamente. Lavorava in uno studio notarile, una
ragazza per bene, la definì con la voce che tradiva qualche emozione. Lo
stronzo che gridava picchialo era uno
raccattato alla festa, un nessuno che campa facendo lavoretti saltuari. Mi
disse anche il nome ma i pensieri erano impegnati in altra attività. Tentai di
ripensare a quei momenti ma i ricordi così nitidi fino a poco prima adesso
erano sfuocati.
“Lasciami andare in bagno.” Estrassi la
pistola, per fortuna avevo resistito alla tentazione di svelargli che era un
modellino e gli tirai la chiave delle manette, gli allungai un vecchio secchio
“Ti dovrai accontentare di farla davanti a me” Si alzò con difficoltà, le
caviglie legate lo obbligavano a movimenti goffi. Alla fine riuscì
nell’impresa.
“Mi ucciderai?” La voce non aveva cambiato
tono e non lasciava trasparire nessuna angoscia. Avevo sognato mille volte
quella scena. La sua espressione, la sua calma avevano sparigliato tutto. Mi
disse di stare tranquillo, viveva solo “Serena è ancora troppo presente nella
mia vita”, non frequentava più nessuno e il suo turno di lavoro sarebbe dovuto
riprendere il martedì. Sembrava che i ruoli si fossero invertiti, io il
prigioniero mentre lui pareva aver recuperato la sua libertà. “Devo ucciderti. Non
ho alternative. Non potrei più stare tranquillo.” Suonò il cellulare, erano gli
amici del biliardo che volevano sapere che fine avessi fatto e assicurarsi che
sarei stato presente per la finale della gara organizzata dal circolo.
“Tranquilli. Domenica ci sarò.”
Il biliardo, l’unica abitudine rimasta
immutata anche in quel periodo così drammatico. Una cerchia di persone che non
si possono considerare amici, poche domande e ancor meno attenzione alle
risposte. Un mondo dove tutto viene azzerato, età, condizione sociale,
interessi, cultura. Un mondo con le sue regole, con i suoi riti, le sue
banalità ma pure una umanità difficile da comprendere. Non si compete con l’avversario
ma soprattutto con se stessi. Una volta in ospedale un medico dopo avermi
visitato mi disse “Tranquillo tornerai a giocare”. Sorpreso lo guardai, mi fece
segno di aspettare. Finì il giro e tornò a trovarmi e lo fece praticamente
tutti i giorni. Ricordava tutte le partite giocate, mi raccontò che lo avevo
battuto con una giocata fortunosa in una finale di un torneo provinciale “Anche
adesso ripensandoci provo una rabbia …”
“Hai mai giocato a biliardo?”
Mi guardò sorpreso, sembrò quasi soppesare
la risposta, sembrò sul punto di parlare ma si limitò a rispondere affermativamente
scuotendo la testa.
“Non ti ho mai visto. Giochi ancora?”
“Ho smesso quando l’unico tiro che mi
riusciva era quello di coca. Tanto tempo fa.”
E’ difficile guardare un uomo incatenato
senza vederci un po’ di te stesso. Per un istante mi sembrò perfino di vedere
l’espressione di rimprovero di mia madre fare capolino nel garage.
“Parlami di Serena.” Persi quasi subito il
filo del suo racconto. Troppo prepotente il ricordo di Elena. Chissà dove sarà
adesso? Cercavo di rimuovere dalla mente tutto ciò che poteva ricordarmela ma
la voglia di lei era intatta. Mi ripetevo che era l’unico modo per proteggerla
ma non basta ignorare qualcuno per cancellarlo. Chissà se mi vorrebbe ancora?
“… lei non voleva. Non avrebbe nemmeno
voluto andare a quella festa maledetta. Continuava a ripetere che quelle
persone non le piacevano. Aveva intuito che avevo ripreso con la coca e mi
aveva seguito per …” Non so da quanto
stesse parlando, avevo sentito solo l’ultima frase. Non attesi che finisse mi
alzai controllando l’orologio. “A proposito che fine ha fatto il mio Rolex?” La
risposta non mi interessava. Feci le scale per salire nell’appartamento a tre
gradini per volta. Tornai con due tazze di caffè, gliene allungai una e gli
tirai le chiavi delle manette. “Tra un po’ mi canterai anche la ninna nanna.”
Non risposi. La sua voce sembrava calma ma il mio comportamento cominciava a
sconcertarlo. Ancora un lungo silenzio. Lui non parlava se non interrogato e io
non sentivo nessun bisogno di sapere. Le mille domande che mi ero portato fin
qui adesso sembravano prive di senso. Era stata un’aggressione, solamente
un’aggressione. Tentai di ricordare la paura, il panico, ripensai allo sputo.
Scene di un film visto troppe volte. Dalla finestra filtravano gli ultimi raggi
del sole. Dovetti ammettere che non sapevo cosa fare. Non potevo tornare
indietro ma adesso il solo pensiero di ucciderlo mi faceva tremare. Decisi di
fermarmi per la notte.
Dal garage non arrivava nessun rumore. Avevo
preparato dei panini che avevamo mangiato insieme, mi ero assicurato che fosse
tutto a posto. Vuotai il secchio di piscio e spensi la luce. Rifeci le scale,
stavolta lentamente come quando rincasavo tardi e tentavo di evitare le
prediche di mia madre.
Cercai un libro. La biblioteca di mio padre era
rimasta intatta. I titoli mi riportarono in una dimensione dimenticata,
Togliatti, Amendola, Dossetti, Gramsci. Mio padre. Più presente oggi di quanto
non sia mai stato da vivo. Ho pochi ricordi di noi insieme, lo ricordo
fischiettare mentre consulta il Bolaffi con la scrivania piena di francobolli,
sento la sua voce che racconta episodi della guerra, li racconta a se stesso.
Ricordi di bambino perché crescendo il distacco era stato pressoché totale. Non
una lite, mai una discussione. Una indifferenza fatta di abitudini e niente
più. Poi la notizia della sua malattia e una nuova vita. Breve. Troppo breve
per potermi sentire risarcito. Le serate trascorse a parlare di politica, i
suoi sogni, le sue aspettative. Le sue debolezze che io avevo sempre scambiato
per egoismo. Non parlò mai della delusione per le mie scelte così lontane dai
suoi ideali, dai suoi valori. Avrei voluto farlo io, avrei voluto rinfacciargli
la solitudine a cui aveva condannato mia madre. Avrei voluto ma temevo di
bruciare anche quei momenti che sentivo mi fossero dovuti.
La morte di mio padre non aveva aiutato ma
era solo un aspetto. Le mie insicurezze, i miei silenzi, le mie contraddizioni
non potevano essere scaricate sugli altri. Notti lunghissime solo con i miei
pensieri, ore e ore a scrivere sempre lo stesso racconto. Solamente con Elena
ero riuscito a vincere la tentazione di fuggire.
Mi svegliai di soprassalto. Un silenzio
fatto di inquietudine. Pensai al mio ospite, scesi le scale in tutta fretta,
quasi che le risposte potesse darmele lui e infatti …. stava armeggiando con la
sportina del supermercato, era già riuscito a infilarsela in testa e cercava di
soffocarsi. La strappai furioso e lo schiaffeggiai con forza. Nessuna reazione.
Ero inviperito, presi a calci tutto quello che mi veniva a tiro.
“Mi dici come usciamo da questa situazione?”
“Me lo hai appena impedito”. Mi disse guardandomi
dritto negli occhi. Il dialogo che seguì avrebbe fatto la felicità di Freud.
Quando guardai l’orologio e presi coscienza
di essere in pigiama, la finestra lasciava intravedere una splendida giornata
di sole. Avevamo parlato per ore, mi sentivo bene e adesso la soluzione mi
sembrava ovvia. Presi le chiavi delle manette dallo scaffale e gliele tirai,
non riuscì a prenderle al volo e prima di raccoglierle mi guardò dubbioso,
allora gli lanciai anche la pisola, la prese al volo e si accorse subito di
impugnare un giocattolo. Si limitò a darmi dello stronzo. Mentre si liberava
dalle manette e dai legacci ai piedi non potei fare a meno di trattenere il respiro.
Si alzò e mi chiese se prima di andarsene poteva fare un bagno. “Sarà meglio.
Puzzi come una capra.”
Mentre era sotto la doccia gli gridai che
sarei uscito a comprare qualcosa per il pranzo pensando che al ritorno non
l’avrei più trovato. Mi sbagliavo.
Mangiammo con gusto, aveva indossato un paio
di vecchi jeans saltati fuori chissà da dove e una camicia di mio padre.
“Non voglio andare in galera.”
“Non ho mai pensato di denunciarti. Volevo
ammazzarti, lo volevo sul serio.”
Ci alzammo. Eravamo all’epilogo. Lui si
avvicinò al taxi. Adesso eravamo in piedi uno di fronte all’altro,
istintivamente gli allungai la mano, pentito tentai di ritirarla ma fu più
veloce, la strinse rivolgendomi uno sguardo incredulo e il movimento gli fece
quasi perdere l’equilibrio. La torsione per restare in piedi avrebbe provocato
l’invidia di Roberto Bolle.
Dalla tragedia alla comica.
“Grazie.”
Non risposi, lo guardai allontanarsi. Se non
mi faccio domande non avrò bisogno di darmi risposte.
Rimisi tutto in ordine con cura. Feci
mentalmente la lista dei lavori che servivano e decisi che sarei tornato più
spesso. Mentre chiudevo il cancello suonò il cellulare. Era Elena. Non credo
nel destino ma le coincidenze sono spesso bizzarre.
sei una sorpresa....piacevole
RispondiEliminagrazie.
RispondiEliminaIvan è un racconto bellissimo!!!Ma l'hai scritto tu?
RispondiEliminaSi mi piace ogni tanto scrivere racconti, ne ho scritto qualcuno anche prendendo spunto dal biliardo. Grazie Denis.
RispondiEliminaniente male, ma dove trovo gli altri a cui fai riferimento?
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